Per una nuova mobilità: un disperato bisogno di visioni radicali

9 Gennaio 2023


Semplificare i linguaggi, immaginare processi implementabili, progettare il consenso, ispirare il cambiamento. Raccontare a tutti che un futuro sostenibile è possibile.

Si gioca qui la partita per una nuova mobilità.

Ho incontrato Federico Parolotto – CEO di MIC-HUB e professionista che lavora a livello internazionale in progetti innovativi di mobilità urbana. L’occasione è l’uscita del suo libro “Muoversi in uno spazio stretto – verso una nuova mobilità” (Quodlibet).

Federico, perché questo libro?

Il libro vuole raccontare un fatto nuovo. Il vero cambiamento delle città arriva ormai da visioni trasformative su che futuro vogliamo e molto meno da processi logico-deduttivi. In pratica tutto quello che la nostra professione ci ha abituato in questi ultimi decenni.

È per questo che abbiamo un disperato bisogno di visioni radicali. 

Dal “Predict and provide” al “decide and provide”: è questo il passaggio a cui pensi?

Esattamente. Serve abbandonare il “predict and provide”, il vecchio metodo di pensare lo spazio futuro della città proiettando lo status-quo in avanti. Per passare invece al “decide and provide”: cambiare gli spazi delle strade a partire dall’idea di città che vogliamo, non dalla quantità di traffico che dovremo in qualche modo gestire.

Per una semplice osservazione delle cose: le città sono capaci di adattarsi, molto meglio di quello che sappiamo prevedere.

C’è un esempio divertente su Piazzale Loreto a Milano, proprio su questa cosa.

Esattamente. Ci trovavamo nel 2020 a discutere un progetto ambizioso per un piazzale radicalmente nuovo capace di potenziare la mobilità sostenibile.

In quei mesi, il gruppo di lavoro si scontrava internamente su come inserire questo progetto dentro il traffico milanese, che sarebbe di conseguenza “impazzito” rispetto a questo cambiamento. 

È arrivata la pandemia, la città si è fermata e poi ri-organizzata rapidamente con la costruzione di ciclabili di emergenza. Proprio una di queste attraversa il centro del piazzale: la direttrice San Babila-Buenos Aires-viale Monza.

Questa pista viene costruita sottraendo spazio alla mobilità veicolare. Ed è proprio qui il paradosso. Mentre i nostri modelli di traffico ci dicevano che era impossibile operare questi cambiamenti per l’impatto sul traffico, la città li stava realizzando costruendo le ciclabili, riorganizzando lo spazio e i flussi di mobilità.

Nelle città italiane possiamo davvero immaginare un futuro senza auto?

Per le città dense costruite prima degli anni ’60 serve una visione trasformativa forte. Ridurre drasticamente il numero di veicoli è una partita alla portata di mano. Su questo c’è ovviamente, una vera contesa culturale in corso tra visioni nuove e chi invece ragiona con gli strumenti del ‘900.

La rinascita riguarda fondamentalmente nuovi stili di vita: qui ci si sposterà grazie alla micro-mobilità e al trasporto pubblico, favoriti da una nuovo ridistribuzione dello spazio in città, che invece andrà a penalizzare le auto.

È una partita complicata, ma si può giocare, anche in breve tempo, come stanno già facendo molte città europee.

E per tutti territori dispersi nella nostra Pianura Padana, ad esempio?

La partita è diversa. Sono territori amplissimi, dove la società si è organizzata attorno all’uso dell’auto privata. Qui, immaginare un modello “città 15 minuti” è ingenuo e non porta a nulla.

Dobbiamo serenamente accettare che l’automobile rimanga la protagonista e trasformarla in un modo di spostamento sostenibile. Penso soprattutto alla mobilità elettrica.

Certo, poi c’è anche da mettere mano alle strade, per “despecializzarle” come spazio solo progettate per le auto e renderle accoglienti anche per forme di mobilità alternativa.

Nell’ultima parte del libro affermi con molta franchezza che è tempo di abbandonare le comfort zone spesso elitarie della professione per diventare agenti attivi, politici del cambiamento. Che cosa significa?

Significa essere in grado di interpretare le sfide mettendosi in contatto con tutti i soggetti che agiscono sulla città. Non limitandosi solo a un confronto con gli specialisti del settore.

Occorre de-specializzare i linguaggi, confrontarsi con chi si occupa di comunicazione, immaginare processi implementabili, progettare il consenso, ispirare il cambiamento raccontando a tutti che un futuro sostenibile è possibile.

Come si fa questa cosa?

Per come la vedo, serve ridefinire il rapporto tra tecnici, politici e cittadini:

  • Noi tecnici, insieme ai decisori, dobbiamo capire che non siamo portatori di una verità assoluta. Decidere dall’alto sopra la testa delle persone è un atteggiamento ormai insopportabile, dal punto di vista etico prima ancora che professionale.
  • Comprendere le difficoltà di chi oggi ha la responsabilità di decidere. Vuol dire interrogarsi come si costruisce faticosamente il consenso attorno a scelte e visioni di chi immagina una città diversa.

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Immagine di copertina: Art collective Ripple Root / Market Street mural (Singapore)